L’epistolario al rettore del seminario di Padova, Sebastiano De Grandis, concorre in maniera efficace a presentarci l’ideale di educatore che animava il cardinale vescovo di Padova. Due cose egli affermava chiaramente: l’importanza della formazione dei maestri e la necessità di fondere una concezione disciplinare con la conoscenza della situazione reale e concreta del giovane.
Il primo dei maestri doveva essere il rettore, egli necessitava della collaborazione dei maestri per non cadere nell’errore di far troppo da se stesso. L’acuta psicologia del Barbarigo gli permetteva di comprendere con sana, e per il tempo rara chiarezza, che l’atmosfera più efficace per ogni educazione è ancora e sempre quella familiare, o che a quella familiare più assomiglia. Proprio a quell’uomo che rappresenta “l’autorità” egli suggerisce di farsi madre, lodando e stimolando i suoi chierici, solo così il rettore può indirizzare i giovani secondo le reali capacità e inclinazioni di ciascuno.
Non solo, ma nella concezione pedagogica del Barbarigo lo stesso educatore doveva educarsi per educare, imparare ad obbedire per poi essere capace di indirizzare e guidare, ed essere così il più possibile cosciente e presente all’alto valore della sua missione d’insegnare.
Al Barbarigo si contestava che scegliesse i maestri del seminario troppo giovani, ma per lui sono i giovani che possono più facilmente capire i giovani e trovare la via di una pedagogia non chiusa in vieti canoni, bensì aperta e disponibile alla realtà della persona.
Palpitante di attualità e di profondo intuito educativo era la sua posizione in merito alle punizioni. Come non era eccessivamente convinto dell’efficacia dei premi così per i castighi che non riteneva capaci di persuadere veramente i ragazzi, aggiungendovi il monito che ogni insegnamento è nullo se l’educatore non è animato e guidato da una “cristiana sapienza”.