di Andrea Miola
Siamo ormai alle porte con un altro Natale con quel Dio che ancora una volta si fa bambino e irrompe nella storia. Lui che è eterno sceglie di abitare, di stare in mezzo a noi. Cosa significa questo oggi? Papa Francesco incontrando i partecipanti al Convegno della Chiesa italiana di metà decennio a Firenze ci ha fatto dono della sua visione di Chiesa. Ancora una volta ha ribadito: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49). Ma cosa significa tutto questo? Il Papa ha invitato la Chiesa italiana a concentrarsi su alcuni aspetti dell’umanesimo cristiano che ha i tratti dei «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Il Santo Padre ha richiamato in particolare tre sentimenti: l’umiltà, il disinteresse e la beatitudine. Umiltà significa che dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra. Il disinteresse ce lo ricorda Paolo: «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4). Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. Il terzo sentimento è quello delle beatitudini: il cristiano è un beato perché ha in sé la gioia del Vangelo che le beatitudini richiamano indicandocene il cammino. Nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care.
Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi tre tratti dicono qualcosa anche al nostro Seminario. Quest’anno in comunità non ci sono stati nuovi ingressi in primo anno. Siamo un piccolo gregge e questo ci mantiene umili. Non ci abbattiamo per questo ma vogliamo coglierlo come un’opportunità perché abbiamo l’occasione di apprezzare meglio il bello, il buono che è seminato in ciascuno di noi grazie a quello spirito di famiglia che l’essere in pochi facilita. Siamo quindi tutti chiamati ad avere un maggior senso di appartenenza alla nostra comunità. Come? Gustando la ricchezza dei momenti di fraternità dati dai pasti assieme, dalle collatio, dalle liturgie, dai momenti di festa e non solo. Ma senso di appartenenza vuol dire soprattutto stimarsi e perdonarsi, portare consolazione salutando, scambiando una parola, regalando un sorriso al fratello che magari vive momenti di fatica e di aridità spirituale. Anche queste piccole dinamiche fraterne fanno parte di quell’umanesimo che Cristo ci dona nel mistero del Natale.