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Terza tappa: la rifondazione del Barbarigo

Era il 1664 quando il cardinale Gregorio Barbarigo venne trasferito a Padova, dalla diocesi di Bergamo dove era vescovo dal 1657. La preoccupazione di questo zelante pastore per la situazione in cui si trovava la chiesa affidata alle sue cure emerse ben presto, come esprimono queste sue parole: «Infinito è il rammarico che proviamo nell’animo nostro riflettendo allo scarso numero di ecclesiastici zelanti di sì sacrosanto ministerio, i quali cerchino con purità d’intenzione d’abilitarsi ed esercitarsi nel guidare le anime al Cielo […]. Ah, quanto bisogna pensare a fare i preti! […]. Due cose mi sono trattenuto per me solo, perché so di averne a rendere a Dio strettissimo conto, l’imposizione delle mani e la collazione delle parrocchie [cioè le nomine dei parroci]. È troppo lo strapazzo che in questi tempi si fa di un ministero sì alto e grande…».

Il Seminario, al suo arrivo, funzionava a Padova da quasi cent’anni, ma in esso venivano educati pochi ragazzi (circa una trentina): vi apprendevano alcuni rudimenti essenziali di latino e di cultura ecclesiastica e vi rimanevano – questo è il punto – solo fino al compimento dei 17 anni di età; il resto della formazione – lo studio della teologia, quindi – veniva lasciato all’iniziativa dei singoli (una ridottissima minoranza), che frequentavano i corsi dell’Università. La gran parte s’impratichiva nel ministero semplicemente affiancando qualche sacerdote nelle parrocchie. La straordinaria intuizione di san Gregorio, quella che gli fece scrivere al padre «io vado pensando di farmi degli operai a modo mio», fu quella d’introdurre un nuovo ordine di alunni, quello che egli chiamò «dei chierici adulti», per un corso di studi corrispondenti all’attuale Seminario maggiore, che fino ad allora non c’era, finalizzato a preparare sacerdoti destinati al servizio pastorale. I giovani, educati anche nella vita morale e interiore, erano così accompagnati fino all’ordinazione. L’esecuzione di quest’ardito progetto domandava una sede nuova per un istituto nuovo; il vescovo la trovò nel monastero di Santa Maria in Vanzo, appartenuto alla soppressa congregazione veneziana dei Canonici di S. Giorgio in Alga, acquistato il 30 marzo 1669 per la considerevole somma di 3.500 scudi che egli raggranellò vendendo perfino l’argenteria del suo palazzo. In appena 18 mesi il complesso fu sistemato e il 4 novembre 1670 – 350 anni or sono – il nuovo Seminario fu aperto: vi fecero il loro ingresso, quel giorno, 106 alunni, che divennero in breve 150.

Dalla sua apertura nella sede dove tuttora si trova, il cardinale non smise mai di seguire da vicino la vita del suo Seminario, occupandosi personalmente e con scrupolo di tutto, dal reperimento dei mezzi per il suo sostentamento alla scelta dei superiori e dei professori, che faceva venire perfino dall’estero. Il primo rettore, Cristoforo Astori, lo condusse con sé da Bergamo, ed era un uomo di sua fiducia. Solo qualche anno più tardi fu in grado di scegliere come guida un padovano, e la scelta cadde sul parroco di Dolo, Sebastiano de Grandis, che resse l’istituto per venticinque anni. Il primo prefetto degli studi fu addirittura un inglese, Thomas Nicholson, cui succedette un diocesano, Marc’Antonio Ferrazzi, distinto per la grande dottrina e l’instancabile attività.

A un anno esatto dall’apertura, il 4 novembre 1671, il vescovo pose in mano a superiori e alunni le nuove regole dell’istituto, in tre parti, ch’egli trasse da quelle in vigore a Milano e promulgate un secolo prima da san Carlo Borromeo, e che presentò così: «Credo sia un progresso da poco l’aver ampliato l’edificio del Seminario, aumentato il numero delle vocazioni e provveduti i professori […] se poi […] lasciano a desiderare le riforma nei costumi e nella pietà, l’osservanza fedele della disciplina, lo zelo delle anime non disgiunto dall’amore per quella cristiana sapienza che sta alla base di ogni attività ecclesiastica». Questo testo, che san Gregorio volle rivedere minuziosamente, rappresenta, congiuntamente al piano degli studi (la Ratio studiorum, che comparve solo nel 1690), l’anima del Seminario da lui rifondato: ne coordina i mezzi al fine, ne regola la vita, ne determina la fisionomia e l’efficacia formativa, secondo l’ideale del santo: «I seminari sono stati eretti perché vi si formino buoni e operosi operai per la cura di quelle anime che Cristo ha redento col suo preziosissimo sangue e perché gli adolescenti […] vi acquistino quella perfezione di vita che deve risplendere nei futuri maestri del popolo. Ora due cose specialmente si esigono nel sacerdote e nel pastore d’anime, la santità e la dottrina. Bisogna quindi procurarsele nel seminario».

mons. Stefano Dal Santo